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La noche del Morava
“Cada país tiene su Samarcanda y
Peter Handke, “La notte della Morava”
su Numancia. Aquella noche, los dos lugares estaban aquí, con nosotros, aquí, a orillas del Morava.”
Un escritor, que desde hace tiempo no ha vuelto a escribir, invita a unos amigos a su embarcación, anclada en aguas del río Morava, afluente del Danubio. Le sirve de hogar, casi de refugio desde hace diez años. Le acompaña una mujer, de la que los invitados desconocen en calidad de qué está allí presente. Además les extraña ya que el escritor es famoso por su difícil relación con las mujeres.
Durante la larga velada, que se prolonga hasta el amanecer, el anfitrión les narra su viaje por Europa, un periplo que empieza en los Balcanes y transcurre, entre otros, por algunos lugares de España y de Alemania, donde busca las raíces paternas. Les cuenta durante su largo monólogo que en el viaje algo le ha inquietado, un peligro a veces manifestado en forma de mujer.
Peter Handke nos transporta en "La noche del Morava" a un territorio singularmente hechizante, onírico, un entorno difuso e imaginario en el que se entrelazan la realidad y la ficción. Nos encontramos al Handke más puro, más fiel a sí mismo, a su forma de narrar, a sus temas: la literatura, la soledad, la pérdida del amor, el eterno viaje, la nostalgia por un tiempo pasado que no volverá, el peso de la realidad, la vida, la muerte... Sin lugar a dudas, es una de sus novelas más poéticas. Más personal, con guiños autobiográficos salpicados de referencias a su obra literaria. Y más ambiciosa.
“Más Handke que nunca (…) "La noche del Morava" es un entretenido y autobiográfico repaso de la vida de Handke como escritor.” Der Spiegel
“Uno de los relatos más poéticos de Handke.” La Libre Bélgique
“Una especie de deambular onírico, pretexto de una exploración poética de Europa (…) Nos gusta perdernos por los meandros de esta travesía inusual.” L'Express
Peter Handke, “La notte della Morava”
PETER
HANDKE – La notte della Morava – Garzanti
“La notte della
Morava”, uscito in Germania nel 2008, non è l’ultimo romanzo di Handke, ma
possiede tutte le caratteristiche dell’opera definitiva: le sue pagine sono il
resoconto poetico di una vita, la riscoperta e la rilettura di un’origine e di
una appartenenza, il canto di una balcanicità perduta, la lotta all’ultimo
sangue condotta fino al rifiuto, fino al silenzio, contro la scrittura, contro
un destino e una vita ad essa dedicati. E ancora: un pellegrinaggio a tappe
verso luoghi e paesaggi dell’anima, un viaggio interiore nella memoria e nella
consapevolezza della propria essenza e poi il bilancio di un amore, così
conturbante e violento da essere desiderato, ma innumerevoli volte rifiutato e
avvertito come un pericolo. Handke, che è uno scrittore esigente con i suoi
lettori, con il suo stile ostico, spesso criptico, con le sue favole
metafisiche, con quegli sprazzi di poeticità così rari, improvvisi e avari che
sembrano evitare di proposito qualsiasi possibilità di condivisione o di
riconoscimento, con questo romanzo li travolge letteralmente, concedendo loro
l’accesso ad una materia narrativa fantastica ma anche evidente trasposizione
di esperienze e memorie reali, oltretutto strutturata in modo geniale ed
accattivante, in grado di mantenere uno schermo, una sorta di residua distanza
tra l’autore e la narrazione e quindi tra l’autore e il lettore.
Il romanzo è la storia di un
viaggio, che è una fuga, ma anche un ritorno alle origini, un viaggio che segue
un lungo tragitto circolare che inizia e finisce su quel battello sul fiume che
ha un nome così evocativo e lirico da immergere fin dalla prima pagina il
lettore nel silenzio liquido di una notte fluviale: “Notte della Morava”. Ci
saranno sempre la notte e il fiume a fare da sfondo e cornice al lunghissimo
racconto dell’enigmatico protagonista del romanzo, che non ha un nome, ma che,
di volta in volta è contraddistinto dalla sua essenza più profonda: dapprima
“ex autore” oppure “ospitante”, poi “viaggiatore solitario”, “viaggiatore
circolare”, “passeggero solitario”, “autore abdicatario”, “narratore”, in
seguito “viandante”, “vagante”, e infine “reduce” e, di nuovo “autore”, per
segnare le tappe di una progressiva dissoluzione e ricostruzione, rifiuto e
accettazione di una intima e profonda natura. Viaggio e via crucis interiore
che non è però il protagonista del romanzo a raccontare direttamente. Il
narratore è uno dei sette amici che il proprietario del battello invita a
trascorrere la notte sul fiume, ad ascoltare il suo racconto e ad incontrare la
donna misteriosa e silenziosa che accoglie gli ospiti, si prende cura di loro e
li affascina con “il presentimento della sua bellezza” che l’oscurità vela ma,
a tratti, rivela. “E della donna sconosciuta, quasi spettrale, ci apparve bello
in primo luogo il fianco: che comnque, tra luce e semioscurità, a tratti si
vedeva con chiarezza. Una curva in sintonia con l’andamento del suo accudire,
no, del suo anticipare, sì, del suo anticipare. Bello ci apparve quel fianco?
In esso ci apparve la bellezza. Tutta la donna, tutta quella persona poteva
solo essere altrettanto bella. E la bellezza di quel fianco irradiava bontà.
Nella curva del fianco bellezza e bontà coincidevano.Il fianco della
scoosciuta, senza essere straordinariamente slanciato, era la sede della bontà”.
Un narratore che racconta ciò che il
protagonista narra nello spazio di una lunga notte, questa è dunque la
struttura che Handke sceglie per mantenere vivo l’aspetto favolistico,
misterioso, metaforico e anche poetico del suo romanzo, per farvi rientrare
anche tutto ciò che attiene alla premonizione e al sogno, per alludere
piuttosto che affermare, per mantenersi un passo indietro rispetto al suo
narrare, per darsi la possibilità di celare e di svelare. Perché è attraverso
lo schermo della narrazione che questo anonimo ed emblematico ex autore, al
centro esatto della sua cornice da favola – la notte, il fiume, il battello, il
bosco, le luci, la donna, i sette amici che accorrono al suo richiamo,
l’indistinto pericolo che li minaccia – può prestarsi alla identificazione con
lo stesso autore del romanzo. Come si può dunque riversare il magma indistinto
e ancora in espansione di una vita in modo generoso e totalizzante, non
tralasciando nulla della sua dolorosa ricchezza, dei suoi desideri, dei suoi
traumi irrisolti, della sua irrazionalità e del suo fulgore, fatto anche di
luoghi, incontri, affetti e passioni, accettazioni e rifiuti, se non
affidandosi ad una struttura narrativa stabile come quella della fiaba, in un
certo modo rassicurante con le sue funzioni rese riconoscibili e accettate da
una tradizione millenaria? Ad essa Handke pare guardare, come già in altri
romanzi, facendola propria e scegliendola come traccia e guida a cui tornare al
termine di ogni sua personalissima divagazione. Ma Handke non è certo un autore
che possa accettare di adeguarsi totalmente ad una struttura prestabilita, che
quindi nelle sue mani si espande vertiginosamente. Così il suo eroe, afflitto
da una mancanza, il rifiuto autoimpostosi della scrittura (“Aveva forse
dimenticato che se toccava un foglio di carta, soprattutto se vuoto, gli veniva
un’eruzione cutanea, addirittura anche solo sentendo un fruscio di carta? Che a
bordo aveva spezzato tutte le matite e le aveva gettate nel fiume?”) soffre
anche di malesseri e manie, prima fra tutte “una crescente avversione
verso i rumori, di qualsiasi genere”, una vera e propria fonofobia (“Il più
piccolo, il più innocuo dei suoni poteva giungere alle sue orecchie come un
rumore disturbante, chiudergli la bocca, serrargli la gola, mozzargli respiro e
parola”) e non tollera “in casa propria il più piccolo spostamento da parte di
qualcun altro”, e accoglie i suoi ospiti nel più assoluto silenzio ed in una
oscurità quasi totale, obbligandoli a sottostare ad una eccentrica ritualità
persino nella distribuzione dei posti a tavola per la cena, nella scrupolosa
costruzione del palcoscenico ideale adatto ad accogliere il suo racconto. Tutto
appare calcolato, voluto e organizzato dall’ex autore – cioè dall’autore –
tutto contribuisce alla resa della complessa costruzione del romanzo, fin dalle
battute iniziali. Sette sono gli amici accolti sulla “Notte della Morava”,
circa sette ore dura il racconto, dalla mezzanotte fino alla svolta del
mattino, sette le tappe del viaggio. Nel cielo c’è una luna nuova, un lieve
vento notturno, più forte in prossimità del fiume, sposta lenti banchi di
nuvole e tutto può avere inizio.
L’allontanamento, il viaggio, è
lungo, complesso, multiforme e circolare; inizia da Porodin, nella Serbia
centrale dove, sul fiume Morava è ancorato il battello, e lì si conclude, dopo
aver toccato tutti i luoghi che sono stati importanti nella vita dell’ex
autore, in un percorso a ritroso di purificazione spirituale verso le proprie
origini, le proprie radici: l’isola di Krk, in Dalmazia, Numanzia e la Galizia,
in Spagna, la regione dello Harz, in Germania, la Stiria e la Carinzia, in
Austria, e poi il Carso e poi di nuovo Porodin. Ma il viaggio è anche,
principalmente all’inizio, una fuga da un pericolo forse immaginato, forse reale
che si incarna in una figura femminile minacciosa, una nemica mortale, la prima
delle figure femminili che si incontrano nel racconto, o meglio, la prima
faccia della stessa figura di donna, punto di partenza e di arrivo del viaggio,
forse motivo profondo della necessità per l’autore di ritrovare la motivazione
interiore della propria vocazione di scrittore. La donna e l’amore. “La notte
della Morava” è un libro che fa dolorosamente i conti con l’amore; nella
trasfigurazione poetica, sotto lo schermo fiabesco del racconto, si cela e
rivela un dissidio inconciliabile tra l’amore e l’attività di scrittore che
esige, “pena la condanna a morte dell’anima, una vita al di là dell’amore
sessuale”, cosicchè – dice l’ex autore, dice Handke – “di tanto in tanto, con la
donna tra le braccia, provava quasi i tormenti di una dannazione” ed era
costretto a tradirla e a rinnegarla. “In ogni donna, durante il suo periodo da
autore, lui aveva subodorato il nemico”, da sconfiggere “purchè il mio scrivere
possa proseguire”. Un dissidio destinato a generare comunque sensi di colpa,
alternativamente nei confronti della donna e della scrittura, perché scrivere
per il protagonista del romanzo non è un lavoro,ma è una questione di vita o di
morte, “di essere o di non essere”. L’inizio del viaggio, che coincide con la
rinuncia alla scrittura, apre alla possibilità di un incontro, alla possibilità
che l’amore si realizzi; cosa che puntualmente avviene, anticipata da sogni e
premonizioni, al centro geometricamente esatto del lungo percorso, quando
“rimasta vana ogni ammonizione, lui dovette precipitarsi dalla donna” e
“lasciare che le cose accadessero”. Per l’ex autore e per la donna inizia
un’altra misura del tempo, appena “loro ebbero occhi l’uno per l’altra,
contemporaneamente”. “E insieme all’altra misura al contempo anche un’altra
luce, e certo non più chiara, no, decisamente scura,una luce cupa, una specie
di luce buia, un annottare in pieno giorno, la luce del sole abolita da
un’improvvisa eclisse totale, compresa la relativa ventata gelida. Dissolvenza
in chiusura di un film, che annerisce quanto circonda i due lì e nell’apertura
circolare mostra da ultimo solo i volti di entrambi”. La donna è una sfida
personificata ed Handke trascende ogni rischio di romanticismo o di
sentimentalismo tratteggiando questo personaggio che trasuda una femminilità
altera, forte e sfuggente, con i capelli sciolti mossi dal vento, “sebbene non
ci fosse vento, o forse erano serpenti?”, una donna che cattura l’ex autore
“come si cattura un fuggiasco, o una fiera, o un truffatore”, che lo chiama in
battaglia, che provoca in lui “spavento dolce, e insieme trafiggente ossa e
midollo”, che pronuncia un’unica frase: “Finalmente un mio pari”. E’ la stessa
donna che accoglie gli ospiti sul battello (tutte le donne del romanzo sono la
stessa donna) e che nella lunga notte, solo in questo punto del racconto unisce
la sua voce a quella del narratore per ripercorrere insieme a lui il loro tempo
nuovo. Handke si è affidato alla fiaba e qui la sua scrittura si abbandona e si
distende, divertendosi a raccontare tutte le cose straordinarie che accadono al
momento dell’incontro dei due amanti: dal cielo cadono d’improvviso gocce e poi
scrosci di pioggia solo sul loro tavolo, un bambino si mette accanto a loro e i
genitori devono staccarlo dito dopo dito da lei e da lui, come da un giocattolo
che non si vuole lasciare, un asino nella notte emette un grido da civetta e
una civetta risponde con un raglio d’asino, tutti i gatti in una notte
diventano verdi, un fiore di sambuco resta immobile nell’aria… E poi la magia
si estende e si moltiplica e trasfigura la realtà esterna, l’intero mondo,
almeno per il tempo in cui la donna accompagna l’uomo per un tratto del suo
viaggio, annulla le distanze geografiche, confonde i pianeti, modifica gli
spazi e gli eventi narrati nei libri, disegna nuovi tragitti per i personaggi
letterari, fa fiorire il giardino dei ciliegi e inarcare il ponte sulla Drina,
camminare un Faust sul sentiero pentecostale, rivoltare il mondo come un guanto
insomma “perché Dio proteggeva gli amanti, appassionati l’uno dell’altro”. Sono
pagine di una sfrenata creatività, di una accesa e felice fantasia che non
abbandonano di un passo l’usuale profondità della scrittura di Handke, ma la
decantano, la sciolgono in immagini ardite e pensosamente poetiche. In questo
amore è però insita la necessità di una temporanea separazione perché c’è
un’avventura che l’ex autore deve affrontare da solo, la riscoperta delle
origini, la risoluzione dei conflitti interiori, per meritarsi lei, la donna.
Perché è nel distacco, nella separazione, che la realtà può apparire e fiorire.
La possibilità di amare, di
scrivere, di pacificarsi e di convivere con inevitabili sensi di colpa legati
ai propri affetti originari, sono queste le mete del viaggio di Handke che,
nella finzione, fa quello che probabilmente nella realtà non è mai riuscito a
fare: rinunciare a scrivere. Perché il protagonista del romanzo è uno scrittore
che ha deciso di chiudere con la scrittura, definitivamente e con sollievo – “Da
qualche tempo si sentiva quasi liberato. Non doveva più raccontare fandonie,
non doveva più tradire. Era dispensato dalla legge, dalla terribile, dolce
legge” – e persino con la lettura, perché per tutto il tempo del viaggio non
avrebbe letto nessun libro e nessun giornale. Il motivo della rinuncia è legato
a ciò che la scrittura aveva significato una volta per l’ex autore – che
significa per Handke – ancora una volta una fuga, o meglio uno sfuggire alla
coercizione della realtà, alle richieste del mondo, all’obbligo di esprimersi:
“mettere per iscritto, per eludere la stramaledetta oralità”, perché “sentirsi
parlare gli ripugnava nel profondo del cuore”, invece nello scrivere “ah, quale
dimenticanza di sé, almeno per una durata spesso non così breve”. Finchè nel
dover esercitare come professione quella dello scrittore non c’era stato più
niente da assaporare e l’aveva colto “una fame, violenta, che era al tempo
stesso una fame d’amore e una fame d’aria”. Il viaggio è una progressiva e
lenta riscoperta della scrittura, un percorso a ritroso che porterà l’ex autore
a tornare ad essere autore, attraverso un pellegrinaggio per incontrare i
propri predecessori, “coloro che per lui, nel corso dell’esistenza, erano
diventati i più vicini”, per interrogare il loro spirito. “Con quegli scrittori
lui sarebbe stato per sempre in una stanza, o per quanto lo riguardava, in uno
stanzino, attiguo alla loro, così come, nel castello dell’anima descritto da
Teresa d’Avila, una stanza, una morada, una cella era attigua all’altra”. Una
sorta di spedizione scrittoria, prima di tutto in Austria, nei luoghi di
Ferdinand Raimund, il drammaturgo austriaco ottocentesco, autore di drammi e
fiabe popolari, per porre a lui le sue domande fondamentali: “Esistono ancora
fiabe da raccontare come le tue?, “Invece di smettere avrei dovuto continuare a
scrivere?”, “Perché indietreggio davanti alla via diretta che mi porterebbe a
casa… perché descrivo giri su giri, deviazioni su deviazioni, per rimandare
l’entrata nella mia casa natale?”, “Perché le parole e le frasi […] diventano
sempre più retoriche […] non hanno più nessuna direzione, sono incapaci di
volare?”. Domande che Handke pone a se stesso, senza trovare una risposta, se
non la sconsolata considerazione: “In realtà bisognerebbe solo temperare
matite, tutto il giorno”. Perlomeno non una risposta intellettuale e astratta,
ma una risposta fatta di carne e di sangue, questa sì, rappresentata da quel
bellissimo personaggio che l’ex autore, ormai viandante, incontra poco dopo, la
ragazza che legge, “la più sensibile e bella delle creature” che “viveva
visibilmente insieme al libro, ne ripeteva le parole compitando, lo
interrogava, si interrogava, era congiunta ad esso, con esso era stata ed era
una cosa sola”, illuminata da “una serietà che sfavillava”. Sono pagine in cui
Handke tratteggia il ritratto del lettore che desidera per i suoi libri, quello
che si augura, quello a cui si rivolge; il lettore capace di distaccarsi
completamente dall’ambiente circostante per immergersi in una dimensione conforme
unicamente a se stesso, nella quale diventa se stesso, predisposto allo
stupore, ad essere colto di sorpresa, che “con un sospiro e/o una risatina
appena percepibile” comincia a vederci chiaro, di una chiarezza tutta
interiore, che entra in gioco totalmente con il libro, per il quale leggere fa
semplicemente parte di tutto, è lo stimolo principale, “motore e carburante
insieme”. Leggere in questo modo i libri ha un effetto protettivo sul loro
autore, quasi materno, perché lo scorta, lo accompagna e lo preserva, a tal
punto che – afferma il narratore e quindi Hanke – “io ritengo i miei lettori
superiori a me stesso”. Alla lettrice, alla sua lettrice, l’autore dedica uno
straordinario omaggio lirico, tratteggiandone un’immagine postuma, cioè
un’immagine destinata a sopravvivere per sempre, una lunga e pura poesia, che
termina con un augurio da lontano, quello di vivere andando incontro, non
importa a chi, anche a nessuno “semplicemente andando incontro per tutta la
vita, senza lasciarsi sopraffare da niente e da nessuno, l’animo colmo di
tristezza, a volte, ma all’esterno invulnerabile, protetta da se stessa, dalla
sua natura, dal suo essere, libera per sempre, giovane per sempre”.
Il viaggio è anche la riconquista
della capacità, possibilità, necessità di scrivere, che l’autore può recuperare
solo pacificandosi e riconciliandosi con la propria origine, per questo i
capitoli del romanzo dedicati alle tappe austriache sono quelli più densi e più
affollati di personaggi, fantasmi, sogni, memorie e apparizioni, e culminano
nell’incontro con la madre morta, origine del suo fondamentale senso di colpa:
“Ma riguardo a sua madre continuava a sentirsi colpevole. Con il pretesto di
fare già da troppo la propria vita l’aveva piantata in asso, così immaginava,
oppure, da lontano, aveva permesso che lei morisse continuando a fare
l’orgogliosa anche nell’abbandono”. Alla madre, morta suicida nel 1971, Handke
ha dedicato lo splendido romanzo “Infelicità senza desideri”, scritto solo
sette settimane dopo il decesso della donna e uscito nel 1972, per ricomporre
con le parole la sua esistenza mancata, la sua vitalità offesa e infine spenta.
A distanza di così tanto tempo, Handke torna a casa, da lei, perché, dice il
viandante, se lui non avesse lasciato che le cose accadessero, se non fosse
stato assente e quindi consenziente, la donna avrebbe potuto essere ancora in
vita. La rievoca con l’allegria che le era propria, “per nulla materna”, mentre
fuma facendo saltare via la cenere della sigaretta con un colpetto del dito e
lo prende sottobraccio. E racconta dei sogni ricorrenti che lo affliggono, in
cui incombe la morte e nei quali lei muore ogni volta, incatenandolo alla
consapevolezza della propria colpa. Alcune pagine de “La notte della Morava”
sembrano chiudere il cerchio, porre la parola fine allo straziante dolore di
“Infelicità senza desideri”, sembrano davvero la rielaborazione di un lutto o,
almeno, un tentativo di rielaborazione. In queste pagine c’è la voce che
mancava necessariamente nel precedente romanzo e che dà le risposte che il
figlio da tanto tempo desidera sentire. La madre del viandante, durante
l’ultima notte passata nella casa natale, gli parla, invisibile, senza volto e
senza occhi; le sue parole non provengono dall’oscurità, ma sono accompagnate
dalla luce e quello che contengono è la verità di una vita e di una morte e,
soprattutto, una assoluzione: “Basta con la colpa e la ricerca di colpa. Basta
tormentarti e tormentare gli altri che poi ogni volta erano i tuoi, sono i
tuoi. Perché tormenti da sempre solo te stesso e i tuoi, fannullone, ultimo
degli scemi del villaggio, saputello da quattro soldi, che fingi di
immedesimarti. Non c’è amore senza compassione”. E’ da questo punto che il
viaggio volge lentamente alla fine, da questo momento il viandante torna ad
essere autore, per ritrovarsi alla fine della notte, alla fine del racconto,
sul suo battello e solo – “Ah, il suo dolore grande: l’eterno essere separato”
– ma con un libro tra le mani, un libro scritto di notte. “Era ancora stremato
dallo sforzo di scrivere, il cuore batteva forte, la mano indolenzita si
contraeva ancora per i crampi”.
Ancora molto si potrebbe dire
intorno a questo romanzo, ancora molte strade possono essere imboccate per
percorrerlo, per esempio quella che porta diritta nel cuore della balcanicità,
di quella terra che Handke ama perché terra d’origine della madre e quindi
anch’essa sua terra natale, e ancora mille altre, alcune fatte di piccoli
spostamenti, tragitti di pochi passi, da percorrere con occhi bene aperti
perché sono colmi di una vita infinitesimale (quella “nuova innocenza” di cui
Magris parla a proprosito di Handke nel suo libro “L’anello di Clarisse”). Come
tutti i capolavori, questo libro è inesauribile e pieno di sorprese e ogni sua
pagina, una volta chiusa, lascia dietro di sé stupore e nostalgia – proprio
quello che Handke si augura di suscitare nei suoi lettori – ma anche paura di
non essere più in grado di vedere con la stessa intensità. E allora “non resta
che aspettare le notti e darci appuntamento con gli antenati. Quando tutti i
morti cominceranno a parlare: allora potremo denominare nuovamente la vita, nel
cuore della notte la poesia come una serpe che ha superato l’inverno, gli occhi
obliqui quasi chiusi, attende la primavera e il sole sulla pelle”.su Numancia. Aquella noche, los dos lugares estaban aquí, con nosotros, aquí, a orillas del Morava.”
Un escritor, que desde hace tiempo no ha vuelto a escribir, invita a unos amigos a su embarcación, anclada en aguas del río Morava, afluente del Danubio. Le sirve de hogar, casi de refugio desde hace diez años. Le acompaña una mujer, de la que los invitados desconocen en calidad de qué está allí presente. Además les extraña ya que el escritor es famoso por su difícil relación con las mujeres.
Durante la larga velada, que se prolonga hasta el amanecer, el anfitrión les narra su viaje por Europa, un periplo que empieza en los Balcanes y transcurre, entre otros, por algunos lugares de España y de Alemania, donde busca las raíces paternas. Les cuenta durante su largo monólogo que en el viaje algo le ha inquietado, un peligro a veces manifestado en forma de mujer.
Peter Handke nos transporta en "La noche del Morava" a un territorio singularmente hechizante, onírico, un entorno difuso e imaginario en el que se entrelazan la realidad y la ficción. Nos encontramos al Handke más puro, más fiel a sí mismo, a su forma de narrar, a sus temas: la literatura, la soledad, la pérdida del amor, el eterno viaje, la nostalgia por un tiempo pasado que no volverá, el peso de la realidad, la vida, la muerte... Sin lugar a dudas, es una de sus novelas más poéticas. Más personal, con guiños autobiográficos salpicados de referencias a su obra literaria. Y más ambiciosa.
“Más Handke que nunca (…) "La noche del Morava" es un entretenido y autobiográfico repaso de la vida de Handke como escritor.” Der Spiegel
“Uno de los relatos más poéticos de Handke.” La Libre Bélgique
“Una especie de deambular onírico, pretexto de una exploración poética de Europa (…) Nos gusta perdernos por los meandros de esta travesía inusual.” L'Express
http://www.alianzaeditorial.es/libro.php?id=2047417&id_col=100500&id_subcol=100501
REVISTAS:
http://cultura.elpais.com/cultura/2013/12/30/actualidad/1388430071_718759.html
Estrategia de la
paciencia
El austriaco Peter Handke se ha
vuelto un clásico, un autor agudo y de implacable mirada
Estrategia de la paciencia
El austriaco Peter Handke se ha vuelto un clásico, un autor agudo y de implacable mirada
3 ENE 2014 - 18:00 EST
“En los muchos estanques de los bosques que rodeaban la pequeña ciudad, flotaba una hoja, una única hoja”. REUTERS
El apego de Peter Handke a la escritura autobiográfica, utilizando experiencias de su propia vida, de sus viajes, de sus obsesiones, de sus batallas, cristalizó en El año que pasé en la bahía de nadie,dando paso con esta obra a la elaboración meticulosa de un retrato literario de sí mismo como personaje. En cierta manera, gran parte de sus libros previos apuntaban en esa dirección, aunque de una manera más elusiva, desde Lento regreso a La doctrina delSainte-Victoire, pasando por Lucie en el bosque con estas cosas de ahí. La noche del Morava es una vigorosa vuelta de tuerca del autor austriaco a su biografía ficcional, esta vez utilizando uno de sus mejores recursos narrativos: el monólogo dramatizado ante un público reducido. El escenario, una barca varada en el río Morava, afluente serbio del Danubio, tiene un toque mítico, sonámbulo. El croar de las ranas, el silbar de los juncos, la noche clara: todo resulta perfecto para un relato que contiene desde insultos al propio alter ego del autor hasta amagos de cuento de hadas. Como afirmaba Walter Benjamin, para quien los cuentos de hadas no derivan del ego, la paciencia es el pájaro soñado que empolla el huevo de la experiencia. Y sí, Handke se refiere varias veces a la paciencia en esta novela como estrategia que la narrativa toma prestada de la vida.
Paciencia es lo que va a tener que desplegar el lector si quiere adentrarse en este libro olvidando, en aras del arte literario, los escándalos políticos de Handke y los efluvios del propio incienso del autor. No es un libro de fácil lectura, a pesar de la impecable traducción, pero al final la recompensa es grande. Seis invitados balcánicos —un amigo de Porodin, un dentista de Velika Plana, un antiguo oficial, un abogado sin trabajo, un maestro en paro, un portero de noche— cenan en la barca del autor, a quien acompaña una mujer que no les es presentada. El anfitrión ya no escribe, y quizá por eso arde en deseos de contarles de viva voz el viaje circular que ha hecho por Europa con el pretexto de huir de una mujer que quería matarlo. El periplo empieza en un autobús que atraviesa la antigua Yugoslavia cubierta de odio y acaba en otro autocar que le devuelve a la región de Karst, donde vuelve a respirar y es de repente el día de las moscas de un día, o el día de las lagartijas esmeralda, o el de las mariquitas o el de la balsamina. El narrador es uno de los oyentes, que a veces refiere en primera persona y en general utilizando el nosotros, y siempre cediendo la palabra al verdadero narrador, el rapsoda que hablará toda la noche hasta que salga el sol, enfebrecido por aquella misma emoción que le obligaba antes a escribir, entre la culpa y la alegría.
Nos llevará a Numancia, a pasear con Juan Lagunas, el poeta fracasado, donde asistirá a un monástico congreso sobre ruidos, pues fue el ruido lo que hizo abandonar la bahía de nadie a Keushing, el protagonista de aquella novela. Y luego a Galicia, y vuelta a la Europa del centro, a Alemania, donde murió su desconocido padre. Y dando rodeos a pie, incapaz de entrar en las ciudades (siempre se pierde en el centro de Viena), pues solo soporta los arrabales aireados, llegará a Carintia, su región natal, para asistir a una multicultural reunión de arpistas de boca. Allí se reconciliará con su pueblo (él es un hombre del pueblo, por eso es distinto de los demás escritores, burgueses todos) y la que fue su casa, hoy un restaurante regentado por su hermano. Y con su madre en el cementerio, que le exhortará a librarse del sentimiento de culpa: No hay amor sin misericordia. Y por fin con la mujer que le persigue, con su soledad. Toda esa vuelta del incansable caminante es anticipaciones, islotes, momentos insulares, del hombre que se marcha, un hombre errático, sin lugar. Pero no tiene desperdicio, porque Handke se fija en todo, tiene momentos sublimes en las descripciones del paisaje, falsos éxtasis de escritor en los que lo más anodino aparecía digno de ser contado: En uno de los muchos estanques de los bosques que rodeaban la pequeña ciudad flotaba una hoja, una única hoja.
Como los buenos libros, al acabar uno piensa que debería releerlo. Aún con todos los excesos y mistificaciones, el tono es verdadero y la voz resuena en la noche del lector como un bálsamo. Handke se ha vuelto un clásico, un autor capaz de conseguir que te hagas preguntas. Y eso lo vemos en los diversos textos que se reúnen en Lento en la sombra, algunos antiguos, en los que habla de Kafka o de Bernhard, otros más recientes, sobre arte y cine. En uno de ellos afirma que Anselm Kiefer le parece un pintor, al margen de su estética de caverna, del aire libre. Y eso es Peter Handke: un escritor que traza con su aguda, implacable mirada, y su oído atento los contornos precisos del aire libre.
La noche del Morava. Peter Handke.Traducción de Eustaquio Barjau. Alianza Editorial. Madrid, 2013. 471 páginas. 26 euros. Lento en la sombra. Peter Handke.Traducción de Ariel Magnus.Eterna Cadencia. Buenos Aires, 2012. 283 páginas. 23 euros
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Un escritor que ya no escribe convoca a unos cuantos
amigos para pasar la noche en un barco-vivenda amarrado en la orilla del río
Morava –La noche del Morava, de Peter Handke, es, aparte del título del texto (Die morawische Nacht, 2008), el nombre de esa embarcación-;
con intervenciones sucesivas, que no con diálogo, el autor y los invitados van
tejiendo una red de narraciones cuyo objeto es el relato del viaje -en algunas
etapas del cual han coincidido alguno de los invitados, que toma la palabra
cuando se relata la etapa en cuestión, relevando al narrador oficial, otro invitado, éste sin identificar,
que es el que lleva el peso del relato- realizado por aquél a través de Europa, en búsqueda de sus raíces genealógicas e
históricas, un viaje circular, que irremediablemente comienza y finaliza en el
mismo punto, en busca de sí mismo, huyendo de un peligro indefinido.
“¿Pero,
claramente, esto sólo ocurría en la fantasía del narrador? Fue así, le hizo
saber al que de entre nosotros le interrumpía con preguntas. ¿Fantasía? Y si lo
fuera… ¿Y por qué “sólo”?”
En ese viaje, el esqueleto sobre el que se
sustenta el texto, el viajero, que evita grandes aglomeraciones y viaja a pie o
en transporte colectivo, se relaciona principalmente con personajes marginales,
tal vez porque los únicos seres humanos que le puedan aportar algo de provecho
sean las personas que la sociedad, o mejor dicho, el sistema, ha relegado a los
márgenes, permitiéndoles así, a su pesar, una inesperada independencia gracias
a la cual pueden mirar y juzgar desprejuiciosa y objetivamente, igual que
sucede en algunas antiguas culturas que dan a los locos y desviados, los
marginales, un valor especial porque se les cree conectados con los dioses.
Alianza Editorial
Todo viaje es una huida. Una huida de un lugar o de un pasado que se ha
convertido en una amenaza, un tiempo en el que ya no nos reconocemos o ya no
somos reconocidos, un lugar que el tiempo ha transformado en un no-lugar, en el
que ya no somos sino que nos limitamos a estar. O una huida hacia un lugar en el que renovar
nuestras esperanzas, enfrentar retos para los que nos creemos capacitados,
incluso buscar líneas de horizontes desconocidos, nuevas tierras, nuevas
gentes, o una soledad nueva, por estrenar; o hacia un tiempo nuevo, una huida
en busca de un futuro sin anclajes, sin condicionantes, rompiendo la
cadena de circunstancias, cambiando el sentido de giro de la rueda sin
retroceder.
“Luego
ocurrió también que lo que él percibía en cada uno de sus pasos se iba
transformando en un monólogo silencioso, no en una conversación consigo
mismo, sino en una que se dirigía siempre a la “persona de referencia”, que
estaba lejos […]”.
Una huida de los viejos fantasmas que uno creía
desaparecidos para siempre, pero que han revivido espoleados por la sed de
poder y por ese miserable cambalache en que se ha convertido la política: la
superioridad de una pretendida raza, la megalomanía colectiva de un pueblo, la
superstición de una etnia, la unidad de destino de una nación; en definitiva,
el odio hacia el otro.
“¡Ah,
todos los que agitan de un lado y de otro las raíces de su origen, como si
fueran látigos…!”
La pérdida de la independencia, materializada en una
relación con una mujer, imprescindible para mantener alerta la pulsión creativa
-¿misoginia?- se codifica como el símbolo de una enajenación a la que es
imposible hacer frente, una acción que comporta consecuencias
ineluctables, que no puede obviarse voluntariamente. Pero también hace referencia
al efecto moral generativo de la renuncia, con claras raíces que el
cristianismo ha hecho suyas; en este caso, la preponderancia del arte frente a
la vida. La negación por la imposibilidad de convergencia, dos seres que serían
siempre dos seres, en una proximidad física que jamás se vería compañada de una
proximidad espiritual, una inevitable desincronización incluso ante la
coincidencia de intenciones; y la incapacidad de comunicación.
“[…]
en aquel momento él pensó que una pureza como ésta era demasiado para él, y que
él a esta mujer no la merecía. “No”, dijo entonces la extraña, “allí no
pensaste en esto para nada, y si lo pensaste fue sólo en un único momento, y
luego lo olvidaste enseguida, en tu eterna idea de que ninguna mujer,
absolutamente ninguna, te merece, ninguna mujer es digna de un hombre como el
hombre que tú eres […]”.
Todo viaje es también un regreso a los
orígenes, por más que el presente, con fría insistencia, reclame su cuota de
existencia: los orígenes propios o los familiares, los orígenes físicos, hasta
el límite más allá del cual la identidad se desvanece; pero también los
orígenes intelectuales, el camino hacia atrás en busca de la fragua donde se
forjó la otra identidad, la verdadera, la única que distingue.
A medida en que uno se acerca a ese territorio
primordial, siente el peso del sentimiento ambivalente de atracción -la
búsqueda de respuesta a la pregunta “¿de dónde vengo?”- y repulsión -“no me une
ninguna circunstancia con la gente con la que lo comparto”- con respecto al origen.
La fuerza centrípeta y la centrífuga en busca de un equilibrio inalcanzable, y
la imposibilidad de permanecer quieto en un lugar que puede considerarse como
propio: es decir, el exilio permanente
como único destino.
“¿Por
qué, desde que he llegado aquí, al país de nosotros dos, me asusta tanto
emprender el camino que lleva directamente a casa, al pueblo de donde provengo,
o a lo que queda de él? ¿Por qué estoy dando un rodeo tras otro, emprendiendo
una excursión tras otra para ir posponiendo la entrada en la casa en la que
nací¿ ¿Por qué se me antoja que allí me iba a acercar a una zona prohibida? ¿A
una zona de “peligro de muerte?”
El regreso al origen es también un reencuentro con
individuos con los que un día se tuvo algo en común y que no sólo el tiempo ha
alejado, un reencuentro artificial porque
nadie es ya aquél que fue -sólo conserva el nombre; a menudo, sólo es
reconocible por el nombre- por más que guardemos su recuerdo inalterado, pero
tampoco en el caso de personajes públicos cuya estela hayamos podido seguir.
Nuestra visión siempre estará contaminada por el prejuicio del recuerdo; así
que estos reencuentros deben limitarse lo más posible tanto en cantidad como en
duración.
“Era
agradable encontrarse entre los suyos -así es como lo sentía aún, cosa rara,
aunque estuviera fuera de juego-, pero durante el menor tiempo posible, es
decir, sólo de paso. Antes habían sido tres los que, en la región por la que se
estaba moviendo en aquel momento, se habían granjeado un nombre como autores,
como se decía. ¡Ah, un nombre! ¡Ah, sí, los nombres! Cuánto bien se hacía
también, andar sin ser nadie, a través de la noche, en medio de la oscuridad
[…]”.
A medida en que el personaje se acerca al
centro, pues su viaje ha parecido más una espiral centrípeta que un círculo,
aumenta la sensación de amenaza, el peligro parece más cerca, en contra de lo
supuesto: serenidad ante lo desconocido, peligro ante lo conocido.
“¿Entonces,
todo se le ponía en contra? ¿Todas las cosas y todos los seres vivos estaban en
contra entonces de que entrara en lo que en una ocasión, en silencio, había
llamado su “centro” y en otra ocasión su “arca”?
El extrañamiento se acentúa cuando se toma el camino
hacia “el hogar”, cuando este concepto lleva aparejadas consecuencias
indeseables como la posibilidad de ser identificado -de nuevo, problemas con la
identidad- de acuerdo con unas coordenadas que no se está dispuesto a asumir.
Por esa razón se manifiesta a menudo ese molesto extrañamiento, la sensación de
ser distinto-entre-iguales cuando todo presupone que
es el lugar el que dota de identidad a sus
miembros, que renuncian a su individualidad. Así, la sensación de aislamiento
se acentúa en aquellos lugares y situaciones especialmente diseñados para
evitarla.
Sin embargo, el viaje debe acabar, del mismo
modo que debe cumplirse el destino: entrada en el pueblo de sus orígenes y
visitas a los muertos, sus antepasados; su casa, donde pasó la niñez y donde
encuentra a su hermano, el único familiar vivo: un regreso al pasado, filtrado
por el tamiz del presente, que acaba decepcionando siempre porque, a pesar de
cerrar ciertas heridas, siempre permanece la cicatriz de no poder
subsanar los errores en su origen.
Y finalmente, ahora sí, el regreso al Morava, el definitivo cierre del círculo, con una
visión inédita facilitada por el contraste con los lugares visitados, y nuevo
-y definitivo- cierre sobre sí mismo.
“Nunca
mostraba afecto alguno por sus contemporáneos. En cambio, se entusiasmaba
viendo una luciérnaga, un erizo, un riachuelo con trozos de mica en el
fondo, una calle antigua, una boñiga de vaca, el remolino en el cabello de un
niño, el color rojo de la marga, el blanco de una flor de membrillo.”
El escritor debe mantenerse ajeno a lo que
escribe: sólo de este modo su observación puede ser objetiva y mantenerse
incontaminada. La no-pertenencia es la clave para conseguir una perspectiva
válida y para acercar el objeto al lector: no tanto independencia, que también,
sino asepsia, higiene:
“Si
quería ser alguien que escribe, pensaba o soñaba despierto, aquél cuya huella
lleva grabada, por lo menos de un modo esporádico -le gustaba emplear esta
palabra, tomándola del archipiélago del mar Egeo-, tenía que mantenerse la
margen de todo.”
Handke, que arrastra una funesta reputación debido a
la mala comprensión de su postura, políticamente incorrecta por ir en contra de
lo establecido y por hacerse preguntas incómodas, con respecto al conflicto de
los Balcanes (Un viaje de invierno a los ríos
Danubio, Save, Morava y Drina, o justicia para Serbia, Preguntando entre lágrimas. Apuntes sobre Yugoslavia),
tiene al nacionalismo como una de sus bestias negras, carga sin piedad contra
cualquiera de los disfraces con los que éste se puede ataviar; particularmente,
el del odio hacia el extranjero, no tanto el que se halla más allá de las
fronteras, sino sobretodo el extranjero interior, los pertenecientes al segundo pueblo, un odio cerval que se ha independizado
de cualquier motivo y que se ha convertido en un elemento vital que se
transmite de padres a hijos como se transmiten las formas de supervivencia:
“Ah,
nunca jamás, los padres y los abuelos, los jefes de estirpe y los dirigentes
del clan, los políticos y los maestros, las estrellas del deporte y los poetas
que, con la energía más concentrada, más unida, a los niños que acaban de
aprender a andar y a coger cosas no les han quitado el gen de la pedrada, no
han fumigado de su carne y de su sangre el automatismo de la pedrada, y que, al
oído, a su oído de niños pequeños, hasta las más profundas cincunvoluciones del
cerebro, hablándoles en voz baja con lenguas de ángel, sí, con lenguas de
ángel, no les han quitado la cantinela machacona del oído, nunca […]”
Con mucha dificultad pueden encontrarse en la
literatura del austríaco trazos de narraciones de hechos -características de la
novela en sentido tradicional, ya desde su fundación, incluso en su antecedente
clásico, la poesía épica-, conflictos convencionales o caracterizaciones
usuales de los personajes. Generalmente, sus libros más narrativos son
protagonizados por un solo sujeto que acostumbra a emprender un viaje en
el que sí es cierto que le suceden cosas pero cuyo objetivo principal es
observar, informar de lo observado y reflexionar sobre ello. No existe tensión
narrativa en sentido estricto, y lo que sustituye a la trama se volatiliza y se
expande bajo la mirada del protagonista, con una preocupación principal: que el
lenguaje refleje con escrupulosa exactitud aquello que describe:
“Al
hablarnos de él, a nosotros, los otros, evitaba la expresión “pueblo de
pescadores”; hablaba de un “pueblo en el que aun vivían unos pocos pescadores”,
y también el cuarto donde él vivía allí n aquel año no era, digamos, alquilado
en una “casa de pescadores” sino, y aquí siguió una complicada paráfrasis: “una
cabaña de piedra sin luz eléctrica, donde por la noche uno se enredaba con las
redes”.
El lector tiene la sensación de perderse entre
símbolos, de leer un texto en clave cuyas metáforas le rehúyen; intenta leer
entre líneas y descodificar el mensaje que Handke oculta, y tampoco lo
consigue. Es posible que La noche del Moravia sea
un gran enigma, pero el lector perderá el tiempo si busca encontrarle una
respuesta, si rastrea en la narración del autor coincidencias con la biografía
del propio Handke; su prosa, tan rica en
sintaxis como en evocaciones, enmarca justamente una búsqueda y, como una
recherche du temps perdu, bucea en los prejuicios, los defectos y las carencias
que los seres humanos arrastramos desde la expulsión del paraíso, sea éste lo
que sea y caso de que haya existido alguna vez. Yerra quien busque en la
profundidad de la prosa de Handke alguna respuesta: la habilidad del austríaco
no está ahí sino en plantear, siempre, las preguntas pertinentes:
“Puedo poner nombres a las cosas, una y otra
vez. Pero lo que puedo nombrar y lo que puedo decir es esto: no soy capaz de
actuar. Pero tampoco quiero actuar. Lo mío es nombrar, no actuar según lo
nombrado. Actuar no es mi ministerio. Soy un poeta y mi ministerio es no
actuar.”
Etiquetas: Europa, La noche del Morava, Peter Handke, viaje
Sobre
el autor
Joan
Flores Constans nació y vive en Calella. Cursó estudios de Psicologia Clínica,
Filosofía y Gestión de Empresas. Desde el año 1992 trabaja como librero,
actualmente en La Central del Raval. Lector vocacional, se resiste a escribir
creativamente para re-crearse con notas a pie de página, conferencias, críticas
y reseñas en la web 2.0, y apariciones ocasionales en otros medios de
comunicación.
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LENGUA
TIEMPO DE LECTURA6 min
14.09.2014 – 05:00 H.
Existe una nutrida tradición de escritores que, tras cultivar ciertas
simpatías políticas, han perdido el beneplácito de
quienes dictan la fama y conceden la gloria. Esta caída en
desgracia es común en autores que han frecuentado el lado sangriento de las
ideologías, coqueteado con dictadores o puesto su voz y discurso al servicio de
la infamia. Las consecuencias derivadas de estas excursiones sin red cubren un
amplio espectro que va desde el olvido hasta la muerte, pasando por la
restitución y el perdón.
Si Brasillach acabó ante un pelotón de
fusilamiento del que ni siquiera las peticiones de clemencia de Malraux y Camus
al general De Gaulle pudieron librarlo, Céline, el escritor más incómodo del
siglo pasado para cualquier tradición literaria que se precie, habita en un
limbo de irresolución que, por un lado, lo asume como uno de los creadores
capitales de su tiempo y, por otro, hace que Francia no encuentre donde
acomodar su genio atroz, si en el Panteón de Hombres Ilustres o en la Mazmorra
de Hombres Infames.
No menos notable es que Malaparte pudiera morir tranquilo y respetado en Roma tras haber
ensalzado a Mussolini en su juventud y haberse sentido seducido
por Mao en su vejez, mientras que Hamsun ha tenido que pagar con un eclipse de
su obra que duró generaciones la connivencia que desde la Noruega de Quisling
mantuvo con el nazismo. Fortuna es caprichosa. Cuando da, y cuando quita, pues
no a todos mide por idéntico rasero.
Aunque los ejemplos podrían multiplicarse, el de Peter Handke es el caso más sonado durante las últimas
décadas de un escritor que, en el sentir de la opinión pública,
se ha situado en el lado equivocado de la balanza política. Destinado desde
pronto a recoger el gran testigo de la literatura austriaca, el autor de Carta breve para un largo adiós, La mujer zurda y El miedo del portero ante el
penalti, eterno viajero y también eterno candidato al Nobel en
lengua alemana, uno de los creadores más reputados y originales de la segunda
mitad del pasado siglo, feliz guionista de esa joya aún hoy deslumbrante que es El cielo sobre Berlín, quedó expuesto al escrutinio del
mandarinato intelectual al apoyar de forma explícita a los serbios y a su
presidente, Slobodan Milosevic, durante el
conflicto de los Balcanes.
Desde que en 1996 publicara Justicia para Serbia, Handke ha encarnado una
serie de roles excluyentes: Pepito Grillo de ciertas actitudes
morales, chivo expiatorio de muchos males; voz del tirano para algunos, oráculo
clarividente para otros; ejemplo de abducción por el mal en ciertos foros,
conciencia insobornable y soberana desde otras ópticas. En todo caso, un hombre
en el punto de mira. La noche del Morava,
que apareció en alemán en 2008 pero ha tardado más de un lustro en llegar al
mercado español, es un complejo y denso recuento en el que Handke, mediante uno
de sus más queridos recursos, el del narrador que inicia un largo periplo,
arroja luz sobre el impacto que aquellas horas dramáticas para Europa tuvieron
en su trabajo. Aunque el libro no menciona abiertamente las circunstancias del
exilio intelectual, la sombra de ese gesto —su expulsión, todavía hoy no
sabemos si definitiva, del seno de la comunidad biempensante del Occidente
soberano— sobrevuela e impregna muchas páginas de la narración.
La noche del Morava es la crónica de un
apátrida expulsado del círculo de los elegidos por haber fiado su
conciencia a una causa maldita. Handke narra esta condena mediante la
estrategia de una segunda fuga: la del escritor sin otra musa que el camino. Si
la literatura del autor de Ensayo sobre el cansancio es
una especie de movimiento perpetuo, una recreación del lugar común según el
cual se viaja para poder regresar, La noche del Morava —uno
de los grandes protagonistas de la cuenca hidrográfica del río europeo por
excelencia, el Danubio, en el que se han inscrito casi todas las guerras y casi
todas las lenguas— abunda en este tópico para elevarlo a su máxima potencia.
Un escritor que ha dejado de escribir, esto es,
alguien expulsado de la primera y última de las patrias, la propia lengua,
decide regresar a los lugares de su infancia, a la casa natal, a la tumba del
padre, al hogar de las palabras, para encontrarse a sí mismo. Para ello, sin
embargo, sigue una estrategia en apariencia enloquecida. En vez de hacer un viaje lineal, siguiendo los mapas, hace un
viaje circular, siguiendo la lógica del aplazamiento. Así, para
viajar desde los Balcanes hasta Austria, el escritor decide antes desplazarse
hacia el Oeste, a los confines del continente, hacia España y Portugal. Moverse
hasta los límites para evitar el centro. Merodear, girar, deambular para no
llegar nunca. Convertirse en una veleta aunque la brújula indique desde el
comienzo una dirección precisa. La literatura, oficio sedentario por
excelencia, en manos del nómada.
La noche del Morava acepta que la literatura es un oficio peligroso por distintas
razones. Primera, porque genera una incapacidad social para decir lo
que de uno se espera en el momento oportuno; segunda, porque este déficit para
la esgrima en sociedad produce una inevitable misantropía, una desconfianza
razonada (y razonable) a propósito de la condición humana. Ser un bocazas,
parece insinuar Handke, no está reñido con una ineficacia acusada para el
mérito. Muy al contrario. Al escritor, a menudo, lo traiciona su conciencia,
por desnortada que se muestre. El precio a pagar por este decir en voz alta lo
que acaso fuera mejor callar es la segregación.
Sartre, que se negó a firmar la mencionada
petición de gracia para Brasillach, adujo para ello una sentencia que ha pasado
al acervo de las querellas literarias: «Las palabras matan». El mismo Sartre,
años más tarde, se implicó para que al gran filósofo (y gran nazi) Heidegger le
fuera devuelta su biblioteca personal. Quizá los artículos antisemitas de
Brasillach en Je suis partout causaron más dolor que la prosa
hermética de Heidegger en Ser y tiempo. Quizá
no. El caso es que, de un modo u otro, maten o sanen, las palabras permanecen.
Handke, que un día decidió comparecer ante la
Historia en calidad de testigo incómodo e inesperado, y que en el Gotha de la
cultura del futuro quizá deba pagar por lo que dijo, por dónde lo dijo y por
cuándo lo dijo, sigue sin duda escribiendo importantes capítulos de otra
historia, la de la literatura contemporánea. Que su importancia en la historia
de la literatura pueda redimirlo de su actuación en la Historia, está por ver.
Que ambas, historia de la literatura e Historia con mayúsculas, puedan contemplarse
por separado, también.
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